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Prima di dormire

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Perché mi metto le mani in faccia? Non riesco a smettere. È come se dovessi lavarmi, togliermi qualcosa di dosso. Mentre lo faccio alzo la testa e chiudo gli occhi, e li riapro subito mentre allontano le mani che scendono sul collo, guardando verso l’alto; sembra quasi che non voglia guardare le dita, non voglia vedere ciò che mi sta toccando. Che poi sarebbe parte di me: è il mio corpo, sono io, non uno sconosciuto, non un altro.

Poi abbasso la testa, e la mano sinistra accarezza i miei capelli, passa sulla nuca, e da lì rialzo la testa e lo sguardo, senza incontrare la mano che riscende sul collo. È un’ossessione. Rifaccio lo stesso con la mano sinistra. Tutto davanti al computer, appoggio i gomiti sul tavolo.

Sono stanco. Non c’ho voglia di fare niente. È che vorrei fare tante cose, ma non posso, o non so come farle, né in che ordine. Inspiro profondamente con la bocca chiusa, ruoto la testa verso sinistra e verso destra. Ma che sto facendo? Espiro profondamente con la bocca aperta. Poi mi gratto con un dito sotto la bocca, sopra il mento.

Mi dà fastidio. Striscio i piedi sul pavimento, sento il rumore delle ciabatte sulle piastrelle, sembrano pesanti. Ingoio la saliva, ho sete, ingoio nuovamente la saliva. Sbadiglio, e sento che mi viene la pelle d’oca sulle braccia.

Sbadiglio, ma è presto per dormire. Invece adesso non mi va di pensare, mi gratto il naso, sbadiglio. Abbasso la testa, per un attimo guardo il tavolo, poi lo schermo del computer. Muovo la lingua, imito il passo di un cavallo, clop clop oppure trot trot non lo so.

Poi abbasso la testa, e la mano sinistra accarezza i miei capelli, passa sulla nuca. Sbadiglio. Sento gli occhi umidi. Non piango, non so perché dovrei farlo. Incrocio le braccia per grattarmi le spalle, ah che sollievo. Comincio a sentirmi meglio, avevo bisogno di un abbraccio.

Sbadiglio, adesso me la sento di andare a dormire,

Il potere

Che cos’è il potere?

Il denaro. Tanto da comprare tutto quello  che si vuole, in qualunque momento se ne abbia voglia.
Si fa del male pur di ottenerlo da chi ce l’ha, anche a chi ne ha poco. Si dicono bugie, a volte si rinnegano i propri cari, oppure si offende la propria dignità: pur di averlo o di non perderlo, si rischia ciò che conta davvero, la felicità.
No, non è il denaro.

Le armi. Da fuoco, da taglio, chimiche, oppure virus informatici, veleni, bande di picchiatori.
Offendono gli avversari, altrimenti difendono da loro. Anche con attacchi preventivi, perché aspettare? Potrebbero avvenire incidenti: come il fuoco amico, per esempio; come le conseguenze delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Fino a farsi del male da soli, talvolta in un momento di follia.
No, non sono le armi.

Il comando. Decidere per gli altri, ordinare ad altri ciò che devono fare; avere dei sottoposti che dovranno eseguire, o addirittura essere al vertice della piramide.
Si urla, si insulta, non si accettano scuse. E si punisce chi non accetta il comando, così come chi sbaglia, magari in misura diversa. C’è chi scatta sull’attenti per eseguire; c’è chi adula o si prostra per godere di favori; chi trama nell’ombra ambizioso di comandare; e chi infine prova odio perché non può reagire oppure per semplice invidia.  Ma arriva il momento in cui non si comanda: perché termina l’incarico; per limiti di età; perché qualcuno fa fuori chi comanda.
No, non è il comando.

Alessandro e Diogene
16th century Alexandre et Diogène Urbino majolica in the Musée des Beaux-Arts de Lyon

Allora che cos’è il potere?

La forza? Veramente il denaro, le armi, il comando, sono diverse facce della forza. Anche se non tutte.
Perché il potere è la forza – per l’appunto – di dire di sì o di no. Nient’altro.

Accettare o respingere una richiesta è il potere. Essere nelle condizioni di poter fare o non fare, questo è il potere.
Non conta essere a capo di una nazione o di un’azienda.
Quando Alessandro, re di Macedonia, incontrò Diogene il Cinico, quest’ultimo viveva in una botte. Alessandro gli disse che qualunque sua richiesta sarebbe stata esaudita. Il filosofo gli replicò di spostarsi perché gli stava coprendo il sole.
Diogene disse di ad Alessandro, facendogli una richiesta, ma contemporaneamente gli disse di no: gli disse chiaro e tondo che non voleva essere disturbato.

Forse quella su Diogene non è solo una leggenda. Non c’è alcuna fonte storica che riporti il fatto che Diogene sia stato punito da Alessandro per la sua risposta. Anzi, Plutarco scrisse che dopo l’incontro il re macedone affermò «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene». Perché Diogene aveva più potere di Alessandro.

Evasione

Era davanti al portone, da dieci minuti.

Non sapeva. Se aprirlo con la chiave. O suonare. Se bussare. Oppure gridare. Se prenderlo a calci. Altrimenti lasciare un messaggio.

«Che aspetti? Qualcuno?» – sentì urlare dall’alto. Alzò lo sguardo: era un uomo anziano con gli occhiali, senza capelli, si notavano le macchie rosse sulla testa pelata. Incrociò per un attimo lo sguardo del vecchio, per poi riportare gli occhi sul portone, e successivamente alla sua sinistra.
Non dovevano chiedergli cosa volesse fare.

Il vecchio continuava ad osservarlo, lui evitò il suo sguardo. Arrivò una donna sulla quarantina con una busta di plastica piena della spesa, ed aprì il portone con la chiave; varcò l’ingresso e, senza girarsi, gli chiese: – «Deve entrare?»

Scosse il capo in segno di diniego, alché la tipa richiuse il portone in fretta alle proprie spalle. Strinse i pugni e chiuse gli occhi per qualche secondo.
Non dovevano essere gli altri a scegliere per lui.

Si avvicinò lentamente un’auto: «Che cazzo ci fai qua?» – gli disse il ragazzo alla guida, dal finestrino aperto; accanto a lui ce n’era un altro. Entrambi avevano i capelli neri, erano alti il doppio di lui, e si somigliavano molto tra di loro: uno era in giacca e cravatta, e aveva gli orecchini ad anelli; l’altro era in tuta e indossava i guanti sul volante. «Sei qui da dieci minuti davanti alla porta. Se non devi entrare, levati dai coglioni.» – aggiunse il passeggero.

Deglutì, per poi pentirsene subito: era una reazione da deboli, adesso avrebbero pensato che aveva avuto paura. Perché mi trattano così? Perché non mi accetta nessuno così come sono?

door
door

Senza dire una parola, diede un altro tiro e incominciò a camminare. «Bravi, ragazzi!» – sentì urlare il vecchio, che iniziò a battere le mani.

Gli avrebbe voluto tanto rispondere: che anche lui una volta aveva i capelli; che anche lui una volta aveva una casa; che anche lui aveva un fratello con cui una volta andava in macchina; che anche per lui una volta non mancava la spesa; e infine che, anche dove aveva abitato una volta con la sua famiglia, non mancavano i vicini ficcanaso.

Non so decidere, come è successo davanti a quel portone, e non voglio che decidano loro per me. Così era stato per tante altre cose, e così come sarebbe stato ancora. Evasione.

E resti a pensare

Ti guardi davanti ad uno schermo
da solo a mezzanotte, riflesso
dal bianco sullo sfondo di un testo.

Seduto, gobbo, hai lo sguardo fermo
con gli occhi che leggono lo stesso
rigo da minuti, senza ricordarti il resto.

Sai che non puoi rimanere di marmo
un po’ perché devi andare al cesso
e un po’ perché l’indomani devi alzarti presto.

E resti a pensare

night in the room
night in the room

«Scusi, dovevo farlo»

Era carico. Aveva la borsa a tracolla appoggiata sul fianco destro; con la mano sinistra teneva in alto  il sacco, mentre con la destra lo sorreggeva. Era uscito dal supermercato carico della spesa, maledicendo il momento in cui si era dimenticato di portare un secondo sacco.

Si era accorto del proprio errore soltanto una volta arrivato alla cassa: la tipa scansionava i pomodori e i detersivi senza degnarlo di uno sguardo, urlando agli altri colleghi di aprire altre casse. «Chiamate la Be, toglietele 5 minuti di pausa» pretendeva lei con tono autoritario. Intanto lui metteva la spesa nel carrello, ripromettendosi di sistemarla dopo aver pagato.
– «Non ho moneta» dichiarò alla cassiera, consegnandole una banconota; lei non rispose, e gli porse il resto insieme allo scontrino.
Ci mise almeno cinque minuti per ficcare alla bell’e meglio i propri acquisti. Nella borsa a tracolla aveva messo i rotoli di carta igienica e il detersivo: – «Questi sono per il cesso» – borbottò, serrando a fatica la chiusura lampo, mentre il resto della spesa straripava dal sacco.

Era quasi arrivato alla fermata e l’autobus stava per aprire le porte, quando un omone di mezza età, più alto di lui ma meno grosso, per poco non gli fece cadere il sacco: gli aveva tagliato la strada per salire sul mezzo prima di lui.
– «Scusi, dovevo farlo» – disse l’omone voltandosi e sogghignando – «Avevo fretta». Senza dire una parola, con il sacco saldamente tra le mani, salì sull’autobus e si mantenne vicino al conducente. Non vedeva l’ora di preparare una bella frittata.

Durante il tragitto evitò di guardare gli altri viaggiatori, avvertendo il sudore sotto la canottiera, stringendo i denti per la frustrazione. Dopo un quarto d’ora sentì il suono della “fermata prenotata”: qualcuno doveva aver premuto il pulsante, risparmiandogli la fatica. Sorrise, si avvicinò alle portiere che si stavano aprendo, ed ecco che venne spinto in avanti: lui non cadde a terra, ma il sacco sì, iniziando a bagnarsi per il tuorlo fuoriuscito dalle uova rotte. Si voltò indietro.
– «Scusi, dovevo farlo» – disse nuovamente l’omone.
Gli diede un calcio sul ginocchio, senza lasciarlo parlare, davanti allo sguardo incredulo degli altri viaggiatori.
– «Anch’io» – replicò, mentre l’omone era piegato dal dolore, e una vecchia gridava chiamando aiuto. Le uova erano rotte, ma la frittata era comunque fatta.

La presentazione

Mancavano diciotto minuti alla sua prima apparizione in TV. Si era messo in giacca e cravatta – per l’occasione – consapevole che più movimenti avrebbe fatto e più alta sarebbe stata la probabilità di andare in tintoria e mollare un deca.

Dopo essere stato trattenuto a più riprese, Klaus finalmente era stato condotto nella sala: il pubblico era già al suo posto (tre file per un totale di neanche cento persone), poco rumoroso tra giovani a braccia conserte, anziani con cuscini sotto al fondoschiena, e altri adulti che si davano un contegno – o almeno così credevano – sistemandosi il colletto della camicia o richiudendo la borsetta.

Il conduttore gli venne incontro e gli indicò il suo posto, in mezzo tra altre due figure, chiedendogli di tenersi pronto a parlare delle attività dell’associazione; quando si erano incontrati per la prima volta, la settimana precedente, gli era sembrato serio sebbene l’invito servisse per creare un contraddittorio con altri ospiti che incoraggiavano attività diverse, se non avverse, rispetto alla sua “Stringiamoci le mani”.

Si avvicinò alla poltrona indicatagli, bianchissima, e solo allora si accorse di quanto forte fosse la luce in sala. Socchiuse gli occhi per qualche istante, e voltò lo sguardo alla propria sinistra, proprio quando stava arrivando l’altro ospite: sapeva chi era, o perlomeno ne aveva riconosciuto la faccia da leader, presente tutti i giorni in TV, sui giornali online, sui manifesti.

«Piacere, Antonio Klaus» si presentò porgendo la mano destra al nuovo vicino. Il leader si avvicinò senza guardarlo direttamente negli occhi, mormorando qualcosa mentre mollava sulla poltrona accanto la sciarpa cachemire, per poi porgere – in risposta – soltanto indice e medio uniti, ma della pallida mano sinistra. Klaus spostò lo sguardo dalla mano porta al viso del leader, che rivolse grandi sorrisi al pubblico esclamando «Insieme ce la faremo!»
«Mi perdoni, non ho sentito…» disse Klaus cercando di stringergli la (parte di) mano concessa, ma il leader l’aveva già ritratta e portata in alto per salutare nuovamente il pubblico.
«Scusi, non ho sentito il Suo nome» alzò la voce Klaus tirando per la manica il suo vicino, che finalmente incrociò i suoi occhi.

Il leader lo fulminò con lo sguardo e replicò: «Non ha capito come mi chiamo?» – ridacchiò – «Ma è sicuro di vivere in questo Paese? Lei non sa chi sono io».
Prima di poter aprire bocca, Klaus fu investito da una serie di applausi. Guardò la propria mano destra, scura come le castagne, e la chiuse in un pugno. Altro che “Stringiamoci le mani”!

«Sei in ritardo»

[23 February 2017 h 9:34 p.m.]

«Sei in ritardo».
“Che devo fare? Devo dire cosa è successo per davvero? No, che poi è peggio” pensò.
Teneva gli occhi bassi fissando il pavimento: era fatto di piastrelle a rombo, bianche e nere alternate, come se fosse una scacchiera; forse proprio per questo in quel momento si sentiva una pedina, pronta ad essere spazzata via da uno più forte.
“Non devo guardarlo negli occhi. Pelazzi mi mangerebbe vivo, non devo farlo”.
Iniziò a tremare mentre la destra accarezzava i capelli ancora bagnati sulla nuca, nel tentativo di pettinarli, visto che non era riuscito a recuperare la spazzola (era caduta nel water senza che avesse ancora tirato lo scarico).
“Sarebbe capace di farmi licenziare, non accetterebbe scuse. Ma mi vergognerei anche se mi ascoltasse, mi sputtanerebbe davanti a tutti”.
Il cellulare iniziò a suonare proprio in quel momento, e non poteva che peggiorare le cose: era già in ritardo, spettinato, e l’intestino non gli stava dando tregua. Si rese conto che non era una chiamata, ma la notifica di un messaggio.
«Sei in ritardo».
“Sono in ritardo”.
Pelazzi non gli avrebbe mai permesso di prendere il telefono e leggere il messaggio, né di guardarlo negli occhi nel giustificarsi. Sarebbe stata la sua rovina.
‘Oggi il cetriolo non c’è, è malato. Evvai!’ recitava il messaggio di Deco.
D’improvviso si sentì leggero, e smise di toccarsi i capelli. Anche la pancia non gli faceva male. Ora che l’incubo di Pelazzi era sparito, si alzò in piedi e si guardò dritto allo specchio: forse non era male, dopotutto aveva ventotto anni e, anche spettinato, avrebbe catturato l’attenzione.
“Non sono più in ritardo” ridacchiò. Adesso poteva recuperare la spazzola. Tutto faceva meno schifo, anche ciò che c’era nel water…

Prima di prendere l’autobus

[27 June 2015 h 6:50 a.m.]

L’autobus non era ancora arrivato, la fermata dall’altro lato della strada era deserta e si era ormai fatto buio. Egli camminava lentamente, tenendo in una mano la borsa con il computer e nell’altra – immancabile – il proprio cellulare (quello aziendale era in tasca, pronto per l’uso); intanto le auto sfrecciavano nelle due corsie della strada, separate da uno spartitraffico di verde.

Arrivato davanti alle strisce pedonali, si guardò attorno aspettando che le auto si fermassero per farlo passare. Dopo un paio di minuti, finalmente la carreggiata divenne deserta e riuscì ad attraversarla arrivando a metà della strada; fu in quel momento che si accorse di lei.

Bionda, magra, la vide accanto alla pensilina a fumare una sigaretta: mano a mano che si avvicinava, notò che era di bassa statura, ma i tacchi le davano circa 10 cm in più; portava gli occhiali e manteneva ferma la sua borsa rosa. Arrivato alla fermata, la guardò meglio: poteva essere sulla quarantina, ma non ci avrebbe giurato; era vestita come molte ragazze in discoteca, con la scollatura bene in vista. Per i cinque minuti che seguirono ella non lo degnò di uno sguardo mentre la sbirciava furtivo.

L’autobus arrivò in quel momento, ed egli salì notando con piacere che non c’era nessuno. Le porte si richiusero. La donna rimase alla fermata con la sigaretta in mano.

Pistacchi

Non gli piacevano i pistacchi. Guardavano la vetrina della gelateria, dove erano esposti alcuni cartoni disegnati con sembianze di diversi ingredienti: una fragola sorridente («le fragole non sorridono»); una barretta di cioccolato ammiccante («ti avrei ingoiato prima di ammiccare»); una nocciola a braccia aperte («come se le nocciole avessero un’anima, dure come sono»); una tazza di latte fumante («ma come fa a fumare se è un gelato al fiordilatte?»); e così via esclamava critiche passando in rassegna ciascun disegno. Teo la guardava dal basso verso l’alto ridacchiando ad ogni uscita della sorella maggiore, per lui era normale sentirla commentare tutto e tutti, ne aveva sempre qualcuna senza risparmiare nessuno: beninteso, alle spalle o davanti alla televisione, ascoltando la radio o dalla finestra sul viale, ma mai in faccia al diretto interessato.

Non avevano trovato però un disegno a forma di pistacchio. La destra era serrata nella mano del fratello, serrata perché sarebbe bastata una distrazione e… puff, il marmocchio sarebbe entrato nella gelateria piazzandosi davanti al gelataio: tornare a casa, evitando scenate e capricci per un cono al bacio e alla panna, sarebbe stato alquanto improbabile; ancora peggio la vendetta di Teo: – «mamma, il Cinese che lavora da Cremino ha sorriso a Ro, e lei gli ha fatto ciao con la mano» – sarebbe stato sufficiente per non darle più i soldi per prendere il gelato, per cui doveva batterlo sul tempo e allontanarsi.

Non voleva andare in giro vestita come a scuola, ma indossare il grembiule era l’unica possibilità che aveva per poter uscire di casa con la scusa di portare qualcosa alla nonna, oppure di andare dalla signora Cè a guardare la tele con Teo. Un giorno avrebbe trovato un modo per scappare di casa, e finalmente si sarebbe vestita come avrebbe voluto lei. Girò la testa verso il fratello e dichiarò sorridendo: «Se arriviamo a casa prima che batta la mezza, la mamma ci farà assaggiare i biscotti per il compleanno di papà!».

Non avevano fatto che due passi, quando qualcuno li superò svelto e si fermò davanti a loro, porgendo la mano. Era il Cinese, era uscito da Cremino apposta per offrire due pistacchi. Ro guardò i frutti, spostando lo sguardo sulla mano pallida e indugiando sul viso del garzone: i due occhi a mandorla gli avevano valso il soprannome col quale era noto, facendo ignorare agli abitanti del paese il suo vero nome; si sapeva solo che era “forestiero”, e che veniva ogni giorno in bici. «Bicinese!» gridavano anziani e bambini quando passava pedalando per la piazza e per il corso, per poi scoppiare a ridere e avere un argomento frivolo del quale conversare, o meglio, un nuovo soggetto di cui sparlare.

«Non mi piacciono i pistacchi» mormorò Ro scuotendo la testa, mentre il Cinese veniva chiamato (non per nome) a gran voce in gelateria. «Ah, è il nuovo gusto che faremo» replicò il ragazzo spegnendo il proprio sorriso. Ro chiuse per un secondo gli occhi e poi tirò a sé il fratellino, e dopo aver oltrepassato il Cinese iniziò a correre senza mollare la presa.
«Bicinese!» urlò Teo, e sia lui che la sorella iniziarono a ridere allontanandosi sempre più.

«Allora, vuoi dirci perché lo hai fatto?»

[23 June 2015 h 2:08 a.m.]

– «Allora, vuoi dirci perché lo hai fatto?» si sentì dire mentre l’odore di vernice umida si faceva più forte nelle narici. La stanza non era grande, ma lo era abbastanza per contenere due armadi pieni di faldoni, una scrivania con due computer e pile di carte, tre sedie di ferro basse, una stampante multifunzione e cinque persone.

Ella era seduta, ma forse era più corretto dire che era abbandonata sulla sua sedia, quasi fosse un sollievo; di quello che era successo nelle ultime 2 ore non le importava molto, sapeva solo che l’avevano presa, e che si trovava in un posto sconosciuto. Sconosciuto fino a un certo punto, visto che sapeva il motivo per cui l’avevano portata lì, anche se lì non ci era mai stata.

La scala mobile l’aveva portata al quarto piano, quello del reparto donne, dove anche gli intimi più pacchiani vengono trattati come se fossero di sartoria d’élite: le ragazze con gli occhi a mandorla interrogavano le commesse bendisposte, per sapere se anche oltre Oceano quegli slip fossero di moda, e naturalmente venivano rassicurate che quella linea era stata lanciata proprio perché piacesse nell’altro continente. Ro aveva guardato e toccato ciò che era esposto – come tante altre tutti i giorni – e dopo… tutto era accaduto automaticamente, come se fosse andata al bagno per lavarsi le mani.

– «Allora, vuoi dirci perché lo hai fatto?» si sentì dire per la seconda volta. Finalmente realizzò di avere otto occhi puntati addosso, e iniziò ad avere paura. «Mi condanneranno, mi condanneranno a morte» – pensò, e intanto le si annebbiava la vista e iniziavano a tremarle i piedi. «Non potrò più andare a Sydney, non potrò più andare a Sydney!» – urlò dando un calcio all’uomo che era seduto davanti a lei.

– «Allora, ti decidi?» si sentì dire nella stanza. Ro aprì gli occhi, la luce del Sole quasi la accecò; poi spostò lo sguardo sulla porta e sentì il suo «Ti aspetto di là» con tono impaziente, mentre egli si allontanava. La vista non era più annebbiata, i piedi erano sotto le lenzuola. Ro sorrise.